Qualche settimana fa sono stata contattata da Gaia, una giovane donna che da ben 16 anni vive nella sua personalissima gabbia le cui sbarre si è costruita negli anni, dondolando fra la sponda bulimica e anoressica dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione.
Ha vissuto in un silenzio assordante il proprio malessere per anni, si è cullata dentro di esso fino a confondere la propria identità e ancora lotta per poter essere libera.
3 anni fa il primo ricovero e l’acquisizione di una maggiore e amara consapevolezza ; tanto dolore dato dal sentirsi allo stesso tempo vittima e carnefice, schiava dei propri pensieri fissi.
Da questa esperienza, nonostante il dolore… nonostante il disturbo… nasce il suo primo libro: “Nè carne nè pesce” alla cui presentazione ho dato il mio contributo professionale.
L’intento? urlare quanto questi disturbi vadano oltre i sintomi che ne costituiscono l’apice. Aiutare se stessa e gli altri a comprendere il messaggio di cui il rapporto con il cibo si fa solo veicolo.
Littleword diceva: “il desiderio del controllo fa perdere i controllo”.
Nelle persone che lottano con un disturbo del comportamento alimentare accade proprio questo: si perde il controllo sull’eccessivo bisogno di controllare ogni cosa.
Il controllo a cui si fa riferimento non deriva da un desiderio ma rappresenta piuttosto una necessità che origina dalla paura, dal dover evitare un danno che non ha una connotazione precisa ma fa riferimento alla propria persona, al proprio senso di adeguatezza che si racchiude e si rannicchia fragile dentro i rigidi confini del controllo del cibo.
Il bisogno di controllo si esprime nella rigidità, in un pensiero ossessivo e polarizzato dove esistono il tutto e il niente. Tramite il cibo si esercita il controllo che si vorrebbe esercitare sulla realtà.
Il secondo polo è quello del perfezionismo. Ancora una volta gli elementi caratterizzanti sono la rigidità e una focalizzazione ossessiva sui dettagli. Anche in questo caso la ricerca non è volta ad una espressione positiva delle proprie potenzialità ma si àncora alla paura. Il timore dell’errore esprime la cognizione che per essere amati sia necessario soddisfare pienamente, secondo altissimi standard autoimposti, le aspettative degli altri. Spesso dei propri genitori.
La valutazione di sè e l’autostima sono rigidamente connesse al raggiungimento di questi biettivi personali, impegnativi e perseguiti indipendentemente dalle conseguenze negative che arrecano.
Perfezionismo e controllo diventano quindi degli scudi protettivi.
Gaia offre molti esempi e con la destrezza che solo chi conosce bene un “luogo” può possedere, guida sùbito i suoi lettori fuori dagli schemi, dai preconcetti e dalle immagini che normalmente affollano la mente quando si pensa ai disturbi alimentari.
Non c’è solo magrezza, non c’è solo rifiuto o eccessivo ricorso al cibo. Sotto tutto ciò, sotto questa immagine stereotipata c’è sofferenza, c’è un pensiero che si rifiuta di progredire, c’è rigidità ma, soprattutto, c’è una grande difficoltà a gestire le emozioni, qualsiasi sia il loro colore.
Il modo emotivo infatti è un mondo rifiutato… bypassato… sconosciuto. Ed è proprio qui che si genera quel vuoto che viene riempito dal cibo… o anestetizzato privandosi di esso. Il punto pare essere: non sentire.
Non mi rimane che invitarvi a leggerlo: